Termine utilizzato per indicare se la pallina si trova all’interno dell’area di tiro.
Ovviamente il termine arriva direttamente dall’inglese e sta a significare “dentro”.
Facile no? Mica tanto… visto che l’arbitro dovrebbe ricordarsi di dirlo, tutte le volte che la magica sfera di plastica supera la linea che autorizza il tiro in porta. Ma quanti lo fanno? Quanti sanno di doverlo fare? Quanti sono così attenti da accorgersi che la pallina è diventata “tirabile” anche solo per assegnare un calcio d’angolo? Pochi, molto pochi, quasi nessuno in realtà. Ed invece, spesso, l’attaccante aspetta solo di sentire quella parolina fatata o il difensore si crogiola nel pensare che, se anche dovesse subire il goal, non verrebbe convalidato.
Beata illusione.
Illusione dettata dal credere di essere qualcosa di serio e di equivalente ad uno sport. So perfettamente di diventare ripetitivo ma uno dei crocevia fondamentali per diventare sport è avere una classe arbitrale.
Sembra difficile, ma non è così.
Prima di tutto basta volerlo. Poi è necessario fare tutti i passi necessari per avere un gruppo di pazzi pronti, non più solamente a mettere gli omini sul campo, ma a vestire quella che, per noi coi capelli bianchi, era un distintivo inequivocabile.
La giacchetta nera.
Perché avere una passione “inside” porta, a volte, a mischiare le carte. Porta a pensare che giocare è bello, arbitrare è un fastidio. Quindi siamo sempre pronti a chiedere (ammetto di averlo fatto anch’io!) al COL di turno, di poter andar via, visto che siamo stati eliminati, perché “abbiamo un sacco di strada da fare”, come se l’arrivare in finale accorciasse questa distanza!
Ammettiamolo, semplicemente non ne abbiamo voglia! Così come non abbiamo voglia di fermarci fino alla finale (a meno che non vi partecipiamo!!!) per tifare, applaudire o anche solo presenziare, alle premiazioni.
Però ci fa piacere quando gli altri ci festeggiano e ci fanno i complimenti!
Attenzione a non cadere nella trappola dell’orologio. Certamente bisognerebbe fare qualcosa di serio per accorciare i tempi, soprattutto quelli morti, per chiudere il torneo ad un orario accettabile e poter procedere alle premiazioni con più gente possibile, nel rispetto di tutti.
Troppe volte si e assistito a finali, anche fra Top Player, dove, gli altri campi erano già stati tolti perché “dobbiamo lasciare libera la sala e poi ce ne andiamo a casa che siamo stanchi”. Ed altre ancora dove erano presenti: i due finalisti, l’arbitro il col e magari qualche amico dei giocatori o qualcuno del club organizzatore che abita solamente a 5 minuti dalla sala, e quindi decide di fermarsi un po’ di più.
Una tristezza infinita. Per chi organizza, per chi gioca, per chi è costretto ad arbitrare, per gli sponsor che abbiamo convinto a darci denaro sventolando visibilità a piene mani o per chi decide di mettere il naso nella sala per vedere “cosa combinano di là”, e si fa un’immagine di noi decisamente squallida.
La fatica di un torneo si può identificare anche in questo.
Nel restare lì, fino alla fine, anche se non saremo noi i protagonisti, nel rispetto di chi si è fatto il mazzo o di chi ha strappato una finale non solo con le unghie ma anche coi denti.
Questo potrebbe iniziare a fare la differenza. Un cambio di mentalità prima di tutto in noi “pedine” di questo micro mondo. Che ci porti a prendere coscienza che se vogliamo cambiare questo gioco e farlo diventare qualcos’altro, la prima cosa da cambiare siamo noi.
Non squadra, non maglietta, non sede del torneo, ma noi… semplicemente… inside…