Le interviste impossibili. Quattro chiacchiere con personaggi più o meno famosi, pronti ad essere riesumati a nostro uso e consumo e a dirci la loro sul nostro Micromondo. Si tratta di personaggi passati troppo presto a miglior vita, che hanno segnato, ognuno a modo proprio, il mondo dello sport. Ciò che ho scritto vuole essere un ricordo per loro e per le loro imprese e spunti di riflessione per noi.
Tengo a precisare che le domande e le risposte sono ovviamente inventate, e che non deve essere messo in discussione il profondo rispetto per le persone, le imprese e gli sport citati. Tutte le informazioni “tecniche” invece sono reali e riscontrabili. La principale licenza che mi sono preso, è di aver accostato a questi personaggi più o meno famosi, il nostro amato subbuteo/CDT con un taglio ovviamente fantasioso.
Buona lettura!
D. Salve mr. Norman! Sono contento che abbia acconsentito a raccontarci la sua storia!
R. Salve a voi. Grazie per avermi dato questa opportunità. Possiamo darci del tu? Mi sentirei un po’ più a mio agio…
D. Certamente Peter! La tua è una storia ricca di difficoltà, di sport, di scelte difficili e di grande umanità e rispetto. Per questi motivi sono sicuro di aver fatto la scelta giusta. Partiamo, come sempre, dall’inizio. Chi è Peter Norman?
R. Beh… il nome completo è Peter George Norman. Sono nato in un sobborgo Australiano il 15 giugno del 1942. Un sobborgo come quelli che si vedono nei vecchi film americani. Avevo una grande passione per il football americano ma in famiglia non c’erano abbastanza soldi per poter comprare l’attrezzatura necessaria e, allo stesso tempo, comprare da mangiare. Da lì la scelta, in realtà un ripiego, di dedicarmi all’atletica pur di fare dello sport.
D. E di diventare il miglior velocista australiano di tutti i tempi! Ma in realtà tu sei stato il coprotagonista di una vicenda che ha segnato il mondo dello sport e, inevitabilmente, anche la tua vita e la tua carriera sportiva. Parliamo di un podio. Di un secondo posto, una medaglia d’argento, niente meno che alle olimpiadi e di un gesto e di una foto…
R. Già. 200 metri piani. Olimpiadi del 1968 in Messico. Primo arrivò Tommie Smith e terzo John Carlos, entrambi americani, entrambi di colore. Io secondo.
D. Ma il podio e la tua corsa sulla pista olimpionica, passarono incredibilmente in secondo piano. L’onore della cronaca venne preso da una foto entrata nella storia e diventata simbolo di una battaglia che ancora oggi viene combattuta. La foto in bianco e nero del vostro podio dove entrambi gli atleti americani abbassano la testa e alzano il pugno con un guanto nero.
R. Erano anni difficili. Tommie e John erano simpatizzanti delle “Pantere Nere” il movimento che lottava contro la discriminazione verso gli afroamericani. Una volta raggiunto il podio, consapevoli di avere gli occhi di tutto il mondo addosso, avevano deciso di fare un gesto che potesse diventare un vero e proprio emblema della protesta loro e di tutte le persone di colore vittime di soprusi.
D. E qui entri in gioco tu. Nella tua batteria eliminatoria, ti qualifichi per la finale e stabilisci il nuovo record Olimpico con il tempo di 20″ e 2. Smith e Carlos vincono le loro rispettive batterie con il tempo di 20″ e 1, correndo in scioltezza e facendo capire che avrebbero dominato la finale. Per te è stato un grande merito, quindi, di riuscire ad infilarti fra i due per prenderti la medaglia d’argento ma non ti sei limitato ad un gesto sportivo importante. Sei andato oltre.
R. Mentre ci incamminvamo verso il podio e la premiazione, ho sentito John che diceva a Tommie di aver perso il suo paio di guanti. Sembravano entrambi molto infastiditi. Gli chiesi qual’era il problema e loro mi spiegarono cosa volevano fare. Gli dissi di fare un guanto per uno e che non era così importante quale braccio alzare ma il gesto. Poi gli chiesi di poter indossare lo stemma del “Olympic Project for Human Rights”.
D. A quel punto siete saliti sul podio, vi hanno premiato e quando è partito l’inno nazionale americano sia Tommie Smith che John Carlos, l’hanno ascoltato con il capo chino, a piedi scalzi e sollevando un pugno chiuso dentro ad un guanto nero.
R. Sì. Questo gesto destò molto scalpore. Tommie e John furono sospesi dalla squadra statunitense con effetto immediato e furono espulsi dal villaggio olimpico. Tornati in patria subirono varie ritorsioni, furono costretti ad abbandonare la loro carriera e subirono anche varie minacce di morte. Ci vollero decenni perché venissero riabilitati ufficialmente e solo l’anno scorso (23 settembre 2019 – n.d.r.) sono stati introdotti nella “Hall of Fame” dello sport americano.
D. A te non andò molto meglio. I media australiani ti condannarono violentemente per il tuo gesto. Anche tu sei stato boicottato dai responsabili sportivi della tua nazione. Ti qualificasti per i 100 ed i 200 metri per i giochi olimpici di Monaco del 1972 ma ti esclusero ottenendo di non mandare nemmeno un velocista a quella edizione.
R. Proprio così. Sono stati momenti molto duri. Ho dovuto ingoiare tutta una serie di cattiverie e di soprusi solo per aver dato solidarietà ad un movimento che tutelava i diritti umani delle persone di colore. Quando mi sono ritirato ho provato ad impegnarmi nel campo dei diritti civili cercando comunque di restare, in qualche modo, vicino al mondo dell’atletica. Dopotutto ero e sono il più grande velocista australiano di tutti i tempi.
D. E nonostante questo sei stato escluso anche dall’organizazione delle Olimpiadi di Sidney del 2000 e non ti hanno nemmeno invitato a presenziare.
R. Evidentemente ero una presenza scomoda anche se erano passati 32 anni e la mia professione, ormai, era quella dell’insegnante. Ma a volte la cattiveria umana raggiunge limiti che diventa persino difficile immaginare, almeno fino a quando non la viviamo sulla nostra pelle.
D. Purtroppo ancora oggi, dopo oltre 50 anni da quella protesta, non si riescono a vedere cambiamenti radicali sul modo di pensare delle persone. E questo è un grosso problema… un poblema che, in ogni momento, potrebbe toccare ognuno di noi.
R. Io però continuo ad essere ottimista ed a pensare che le cose possano e debbano migliorare. Dopotutto anche in Australia, nel 2012, addirittura il parlamento si è formalmente scusato con me, riconoscendomi il grande coraggio di indossare il simbolo del Progetto Olimpico per i Diritti Umani. Hanno riconosciuto il risultato atletico, il record australiano tuttora imbattuto, si sono scusati per non avermi fatto partecipare ai giochi di Monaco 1972 ed hanno riconosciuto “il significativo ruolo che Peter Norman ebbe nel promuovere l’eguaglianza delle razze”.
D. Gli Stati Uniti avevano deciso di renderti omaggio già prima. Sei morto d’infarto il 3 ottobre del 2006 a 64 anni. La Federazione Statunitense di Atletica Leggera ha proclamato il 9 ottobre, data del tuo funerale, “Peter Norman Day” per renderti il giusto, anche se tardivo, omaggio.
R. E in quel giorno, a sorreggere la bara, c’erano Smith e Carlos, ancora commossi… ancora a capo chino…
D. Peter è stato un privilegio averti con noi, per parlare della tua vita e di un momento che ha segnato un momento importante della storia dello sport e della storia di tutti noi. Grazie di cuore.
R. È stato un piacere. Certi ricordi fanno ancora male ma devono servire a cambiare le cose. Io ci credevo allora e ci credo adesso.
Si chiudono così le mie “Interviste Impossibili”. Probabilmente qualcuno storcerà il naso visto che, soprattutto in quest’ultima intervista, non si è parlato di Subbuteo.
Credo, in realtà spero, che da tutto questo, ognuno di voi riesca a trovare degli spunti. Spunti non solo subbuteistici, ma anche di riflessione perché le persone che ho “intervistato” avevano una storia da raccontare. Spesso una storia sconosciuta, ma sicuramente una storia che, dal mio punto di vista, valeva la pena raccontare e conoscere.
Spero di essere riuscito nel mio intento. Ringrazio e saluto tutti i personaggi che ho raccontato e voi che mi avete seguito.
Alla prossima…