Capitolo 1
Retrocessione. Tutti noi sappiamo cosa vuol dire questa parola e quello che implica. Praticamente ogni giorno dobbiamo combattere per mantenere una posizione. In casa con mariti o mogli dove bisogna fare i conti con il tran-tran quotidiano e con mille decisioni spesso non condivise a pieno.
Sul lavoro dove cerchiamo di ottenere un miglioramento professionale e, conseguentemente, economico.
Sul piano sportivo, per chi lo pratica, dove cerchiamo di conseguire vittorie che ci portino sul gradino più alto del podio, posizione spesso utile soltanto ad arricchire il nostro ego e nulla più.
In tutto questo la retrocessione è spesso un incubo, il mostro nascosto dentro l’armadio, l’onta che macchierà in maniera definitiva e incancellabile il nostro curriculum. È ciò che verrà usato per prenderti in giro, per ricordarti il fallimento, per tenerti al tuo posto.
Nella vita di tutti i giorni, nel lavoro, nello sport. Ogni volta che si decida di mettersi in gioco, si tratti di cose serie ed importanti o del nulla cosmico, come una partita a briscola al bar o un campionato di Subbuteo, con in palio una coppa metallica e l’inserimento in un fantomatico albo d’oro letto, forse, da qualche centinaio di persone.
Uno dei problemi con cui spesso ci si deve confrontare è legato proprio alla sconfitta e alla scarsa preparazione che ci viene fornita per poterla affrontare. Così può capitare, per un giocatore di Subbuteo, che ci si prepari per mesi per affrontare il campionato con la certezza di fare bene e ci si ritrovi, a fine week-end, con la testa fra le mani a chiedersi “dove abbiamo sbagliato?”.
È il caso de “l’Atletico Sciolina”, club nato all’oratorio di San Luigi Gonzaga, a poche centinaia di metri dal celebre Palazzo Te a Mantova. Francesco e Antonio si conoscono da una vita. Scuola elementare nella stessa classe, scuola media, classe diverse ma divise da pochi centimetri di cemento. Soprattutto stesso oratorio, frequentato in ogni momento rubato allo studio. Praticamente una seconda casa.
Tutti e due appassionati di calcio e, manco a dirlo, di Subbuteo. Passioni condivise e praticate ovviamente a livello solamente amatoriale. La prima per colpa di piedi non proprio sopraffini, la seconda perché si trattava di un gioco in scatola praticato spesso e volentieri sopra il tappeto di casa in totale assenza di regole e tenendo conto che se giocavi con l’Avellino, in ogni caso, non potevi vincere contro il Barcellona. Perché almeno il valore del vero campo in erba, andava rispettato.
Ma era bello potersi inventare sfide al limite del reale, fra le squadre di serie C e le regine del calcio europeo. Va considerato anche che era l’unico modo per vedere certe partite visto che sul campo del Mantova, la domenica, non passavano squadre così blasonate.
Naturalmente, pur a malincuore, c’è un tempo per tutto. Il calcio giocato lascia il posto alla preparazione della schedina. La domenicale partita allo stadio viene sostituita dalle gite fuori porta con le fidanzate. Il Subbuteo finisce, seppur con fastidio, in uno scatolone sopra l’armadio o in una cantina polverosa. Altra età, altri impegni, altri interessi. Tutto normale. Un film visto e vissuto da migliaia di ragazzi di quella età in quel periodo.
Quando Francesco, tempo dopo, sul lavoro, conosce Bruno di pochi anni più grande di lui e scopre che a Subbuteo non solo si gioca ancora, ma lo si fa a livello professionale, si precipita a recuperare quella famosa scatola accantonata anni prima.
Riaprirla è un po’ come scartare quel pacco di Natale che non credevi fosse per te. La prima cosa a saltar fuori è il fatidico campo in cotone. Piegato perfettamente. Francesco non lo apre, lo appoggia sul tavolo così com’è. Ecco dalla scatola uscire il Manchester, il Milan, l’Avellino, il Borussia, il terribile Ajax, il Camerun, la Lazio di Signori ed eccolo lì, sul fondo, per quello che ha rappresentato nella sua giovinezza, il pezzo più pregiato. Il Mantova di Blasig, Toschi e Favalli che aveva conquistato la serie A vincendo il campionato cadetto. Squadra dipinta a mano dal mitico Dino. Due omini con le gambe rotte, sorretti solamente da una quintalata di colla. Uno spettacolo.
Poi, sul fondo della scatola, un po’ sgualcito, il quaderno dove lui e Antonio segnavano risultati e marcatori delle loro interminabili sfide. Antonio… chissà se ce l’ha ancora… Uno scatto verso il telefono. “Antonio? Sono io. Senti qua… Mantova, Atalanta, Catanzaro… Palermo, Modena, Perugia, Brescia…” Una pausa. “Fermo lì!!! È la classifica del nostro campionato di Subbuteo!!!”.
I due scoppiano a ridere rievocando le sfide sul tappeto di casa tra un bicchiere di Coca e una fetta di pane con burro e zucchero. Antonio conferma di avere ancora tutto. E anzi, avendo spostato la scatola recentemente, si chiedeva appunto dove fosse finito il quaderno dei risultati.
I due impiegano pochi secondi per decidere di rispolverare la vecchia passione due giorni dopo. Antonio è particolarmente insistente sul vedersi a casa sua, nonostante il campo sia a casa di Francesco. Anzi insiste nel far sì che Francesco non lo prenda neanche su, giustificandosi con una sorpresa da svelare al momento opportuno.
Lo stupore di Francesco, appena entrato in casa di Antonio, è indescrivibile. Un tavolo al centro della stanza. Ma non è un tavolo da cucina o una scrivania. È un tavolo con attaccato sopra un panno verde con tanto di porte e sponde. È un tavolo da Subbuteo.
Francesco si avvicina lentamente e si accorge subito che non è il campo in cotone che avevano consumato a furia di partite e lavaggi e passate di ferro da stiro e Bic usa e getta per togliere i peletti. No. Sembra un panno di quelli che si usano per il biliardo. Antonio prende una delle scatole portate dall’amico. È il Camerun. Prende un omino, lo straccio, il Pronto. Una bella lucidata e poi, omino sul campo, un colpo secco. La miniatura parte dritta come su un binario e si fa tutto il campo.
Francesco sgrana gli occhi e, tra i denti sottovoce ma non troppo, tira un’imprecazione, scusandosi subito con l’amico ma affrettandosi immediatamente a chiedergli di poter provare. Antonio ride e gli passa un altro omino. “Vai. Dagli una passata e prova!”. Francesco prende l’omino, gli dà una passata sullo straccio ancora umido. Una bella lucidata e poi si posiziona nella lunetta del calcio d’angolo più vicino a lui. Prende di mira la bandierina dell’angolo opposto. Si concentra come se dovesse fare il goal decisivo di chissà quale finale delle finali. Un bel respiro e poi colpisce.
La miniatura numero 9 che rappresentava Roger Milla parte, e Francesco, alzando la testa, la segue con lo sguardo. Non sbatte neanche le palpebre per non perdere un solo momento di quella traiettoria che sembra non finire mai. Metà campo, area di tiro e poi la bandierina. Ed infine le sponde che delimitano il campo. L’omino rimbalza contro il legno e torna in campo girandosi verso Francesco e guardandolo quasi a irriderlo e a volergli spiegare, uomo di poca fede, che sarebbe andato avanti ancora se il campo fosse stato più lungo.
Antonio guarda Francesco ed esplode in una risata fragorosa. Francesco continua a guardarlo incredulo. Passa la mano sul panno accarezzandolo come si farebbe con un gattino appena nato. Piano piano. Lentamente. Non con il palmo aperto ma con le nocche. A sfiorare il campo per capire come sia possibile. Solo in quel momento si accorge che le porte non sono le solite in plstica ma sono in ferro. “Dai… facciamo due tiri…” Antonio ripassa il Camerun a Francesco e tira fuori una Giamaica spettacolare, quella con la maglia gialla e il disegno verde, portata ai mondiali di Francia ’98.
Francesco ormai non sa più né dove né cosa guardare. Prende in mano una miniatura e la osserva sempre più stupito. “Ma dove l’hai presa questa?”. Pronta la replica di Antonio “Sul sito internet dove ho preso le porte. È in decals. Bella vero?”.
Francesco si tocca la fronte quasi a verificare di non avere la febbre. “Batto io”. Era da parecchio tempo che i due non giocavano e riprendere ora su quel tappeto verde faceva una certa impressione. Stavolta non segnarono nulla sul quadernetto dei risultati. Si limitarono a giocare e ridere. Non avevano idea che quel pomeriggio sarebbe diventato un punto di partenza anzi di ripartenza. Soprattutto non avrebbero mai nemmeno immaginato quante cose sarebbero cambiate nel corso degli anni a venire.
Lo avrebbero scoperto sulla loro pelle…
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